lunedì 14 dicembre 2009

(8) 4a Lezione: Il Senso di Mario per gli Idioti

(Note: this Lesson cannot be translated in English. It has too much to do with myself, my hometown, and the dumbest of all things, local soccer. It evolves, fundamentally, around the concept that soccer is the most stupid thing mankind invented, and such is the individual that lives for it. So, either you are evolved and do not care about soccer, therefore you can be spared to read, or you are a soccer fan, therefore you are too dumb to understand it.)

"A vent'anni è tutto ancora intero
A vent'anni è tutto chi lo sa
A vent'anni si è stupidi davvero
Quante balle si ha in testa a quell'età"
(Francesco Guccini, "Eskimo")


Un branco di coglioni in uno stadio qualsiasiCon l'avvicinarsi dello show natalizio, a tutti tocca in sorte l'indecoroso compito di andare in cerca dei Regali Obbligatori. E' il compeanno di Dio, in fondo; peccato che i regali non tocchino mai al festeggiato, in questo caso, ma è un altro discorso. Di fatto, questa odiosa sorte rituale è toccata anche a me.

Pochi giorni fa mi trovavo in una cattedrale (cioé in uno dei soliti moderni centri commerciali dove trovi tutto e non ti serve niente), con Mario che sibilava sulla mia spalla per essere stato costretto a venire con me. Armato di una sufficiente dose di pazienza, entro in uno degli enormi negozi che affliggono questi luoghi, quando mi passa davanti una faccia nota.

Ora, Mario avrà molti difetti, e non sarebbe quel che è se non fosse così, ma ha un innato istinto nel riconoscere un imbecille in avvicinamento. E' come un radar. Quando l'ho sentito irrigidirsi, soffiare e gonfiarsi come un gatto alla vista di un bagnetto di acqua salata, avrei dovuto adeguarmi e girare sui tacchi, puntando deciso l'uscita e chiuderla lì. Ma il tempo passa, e poiché i miei neuroni ormai da tempo hanno preso a suicidarsi in massa come i lemming, non ho più la prontezza e i tempi di reazione di un paio di decenni fa. Peggio per me.

Per cui incrocio lo sguardo del tizio, lo squadro, lui non mi riconosce (e anche questo, a posteriori, era un segno che avrebbe dovuto suggerirmi di lasciar perdere, ma io sono così, schiavo di quel molle lato umano portato all'incontinenza sociale, cioé non so resistere, giuro sto cercando di smettere, maledico le nonnette e insulto le suore, ma non sono ancora uscito definitivamente dal tunnel). Fisso il tizio. «Tu sei Andrea (Pinco), io sono Andrea (Pallino)!», gli dico senza trattenermi. Ahimé, ci riconosciamo.

Trattasi di un compagno di liceo, quindi parliamo grossomodo di vent'anni fa. Mai più visto. Me lo ricordo al liceo, sul campetto di cemento, che sapeva certamente menar palla come pochi, con l'occhio azzurro e il ricciolo biondo ribelle che facevano impazzire le compagne di classe. Forse da qualche parte negli anni siamo anche stati compagni di banco. Comunque si andava d'accordo, si giocava a calcio insieme, e ci si sfotteva bonariamente per spirito di tribù in base alle diverse simpatie calcistiche (perché al di sotto dei 18 anni è lecito praticarlo, guardarlo e parlarne, ed è perfino consentito dividersi nei due rami sub-evolutivi, pro-Toro e pro-Juve, che poi raggiunta l'età della ragione deviano verso l'essere umano propriamente detto oppure si inclinano inesorabilmente verso il ramo secco dell'homo tifosus).

Mi ricordo anche, in quel balenante momento in cui ci riconosciamo, che lui era uno sfegatato del Toro, ma lì per lì non gliene faccio una colpa: eravamo giovani e innocenti. Certo, essere fanatici di calcio è di per sé una colpa grave, e peraltro essere del Toro costituisce un'ulteriore aggravante - non lo dico per simpatia/antipatia personale, ma in base a una accurata statistica redatta da me medesimo dal giornalaio, al bar e in vari contesti casuali nei quali questa sottocategoria accorpa e mette in mostra quanto di peggio l'evoluzione dell'uomo ha prodotto; prendere il caffé accanto a tre tifosi del Toro che blaterano al lunedì mattina fa lo stesso effetto che farebbe bere una tazza d'acqua stagnante stando seduto in mezzo alle fogne di Calcutta. Sono fastidiosi come mosconi. Almeno quelli della Juve di solito stanno zitti e non mi ammorbano con i loro astuti pareri da allenatori della domenica del cazzo.

Ma a tutto questo non dò peso. Sono passati vent'anni. Siamo cresciuti. Ci siamo sposati. Abbiamo figli. Abbiamo, o dovremmo almeno avere, scoperto le cose importanti della vita. Mi fa persino piacere reincontrarti.

Prima cosa che mi dice, ripeto, vent'anni che non ci si vede anche se qua è là ho avuto sue notizie di rimbalzo (per esempio so che è sposato e che ha prole, so dove lavora, Torino è una città piccola): «Come stai», «Io sto bene», venti secondi di queste solite banalità peraltro inevitabili.

Dovrebbe seguire: cosa fai nella vita, hai figli, quanti anni hanno, tutto bene, cosa hai fatto, riferimenti ad altri ex-compagni o amici comuni, hai più avuto notizie di Tizio o di Caio... parrebbe normale. E invece.

Seconda cosa che mi dice - e sono passati meno di due minuti dal momento in cui mi ha rivisto dopo vent'anni: «Sei sempre della Juve?».

Resto sbigottito per un istante, Mario soffia come una tigre dai denti a sciabola, i miei neuroni si esibiscono in un salto del lemming con il triplo carpiato, e non ho la prontezza di dare la mia solita risposta a questa domanda e alle altre varianti del quesito esistenziale più stupido dai tempi della preistoria: «Di che squadra sei?». La mia risposta usualmente è: «Superati i 18 anni ho scoperto che continuare a dare importanza al calcio, oltre che infantile, è una cosa decisamente idiota» [Tm]. In genere scontenta e mette a tacere l'interlocutore, con mia buona pace e intima soddisfazione.

In sostanza, poiché ho praticato come tutti questo sport da decerebrati fino all'uscita dalla pubertà, e in seguito è stato ahimé anche materia di lavoro per me, non lo ignoro come vorrei. E tra le due fazioni cittadine, chiaramente per buon gusto e qualità mentale e intellettuale dei diversi appartenenti (e in parte per eredità familiare), gradisco di più la sponda bianconera. La mia posizione è che non vado allo stadio, non guardo una partita che sia una in tv, se la "mia" squadra vince mi fa piacere, se perde sinceramente me ne strabatto, e non mi interessa minimamente cosa fanno le squadre altrui, saranno un po' cazzi loro.

Stavolta, come detto, esito, e perso nei tempi andati almeno quanto colto alla sprovvista, balbetto qualcosa tipo «... Beh, oddìo, più o meno, sì». Lui, questo individuo che credevo evolutosi oltre lo stadio larvale e prossimo alla maturità dei 40 anni come me, sorride beffardo e mormora: «Auf Wiedersehen!». Esamino per un istante, sconvolto, il concetto astruso. Perché mi saluta in tedesco? Mario ringhia e mi affonda gli artigli nella spalla. Vedo il tizio che sta palesemente avendo un'erezione, probabilmente un'orgasmo, tanto ritiene sia stata geniale questa sua battuta. Poi collego: la Juve, il giorno prima, ha perso una partita contro il Bayern Monaco, squadra innegabilmente tedesca.

Il tizio si allontana preda dei suoi ormoni (ha anche un po' di bavetta, potesse si darebbe le pacche sulle spalle, anzi manca poco che si abbracci e decida di limonarsi un po' da solo). Io resto lì, inebetito. E rifletto.

Inizialmente, sul fatto che il Toro (che sta peraltro in serie B e non esattamente in Coppa dei Campioni) ha appena perso a sua volta con il Crotone (o il Gallipoli, o il Sassuolo, o un'altra squadra di serie zeta), quindi devi essere discretamente stupido, perfino più della media dei tuoi pari - di solito una gazzella un po' zoppa e mezza marcia non prende per il culo il leone, se ne incontra uno, ha il buon gusto di girare al largo senza farsi notare. Poi finalmente inizio a riprendermi ed evito di cadere nella spirale del calcio, sbatto le ali mentali e mi libro di nuovo dove l'aria è (mentalmente) fresca.

E penso a quanto deve essere stata triste la vita di una persona che da vent'anni mastica amaro, che infonde tutto il suo misero senso di autorealizzazione in una fede calcistica (occhio alla parola "fede" che già di per sè siamo sul confine tra improprietà e bestemmia!!!), la quale non gli ha mai dato una singola, piccola, miserrima soddisfazione... al punto che, per resistere al baratro della depressione, e non potendo godere di gioie proprie, gode delle sfortune altrui, fatto che costituisce in tutti i campi dell'umano scibile un passo indietro sulla scala evolutiva. Penso che va bene i miei lemming, ma i tuoi neuroni devono essere spariti senza lasciare manco un biglietto di addio, parecchio tempo fa.

Vent'anni che non mi vedi, Vent'anni. E la seconda cosa che ti passa per la testa è di prendermi per il culo non già perché la tua squadra ha vinto, ma perché la mia ha perso... o meglio, quella che tu pensi sia la mia, perché ritieni che anch'io mi sia seduto sul diciottesimo gradino della vita e sia rimasto lì accanto a te, inebetito dai tuoi stessi idoli di cartone, affogato nella mia bava come tu nel tuo livore, a spremermi le gònadi di fronte a una palla di cuoio...

... ma vaffanculo, imbecille. E te lo dico con il cuore pieno di spirito natalizio. Non solo mi hai confermato che i fanatici di calcio come te sono e rimangono un sottoprodotto della mia specie (e che tra essi quelli di fede granata sono sinceramente delle persone mediamente più di merda degli altri), ma mi hai anche ricordato quella vecchia stronza che immancabilmente tutti i lunedì incontro dal giornalaio, a berciare con quella sua voce nasale del cazzo «Il nostro allenatore», «I ragazzi non hanno un bel gioco», «Per lo meno la Juve ha perso» (a riprova che da che mondo e mondo tutti gli stronzi si somigliano, n.d.a.). «La nostra fede granata» e un sacco di altre puttanate che mi disturbano mentre compro il Corriere o cerco il nuovo numero di Wired. Ma per questo ti ringrazio. Sono quattro anni che la sopporto, tutti i lunedì. Non ce la faccio più. La settimana prossima mando affanculo pure lei.

Scusate, non c'è una vera lezione del nostro manuale, qui. Se non questa: c'è un limite anche a quanto ci si può dimostrare imbecilli. Ma se lo superi, questa lezione è peraltro inutile. Quindi, per dirla con Stephen King: «Grufola, porco, o crepa». Poco m'importa.

E Buon Natale.

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